PICCOLA STORIA DEI BOSTON CELTICS

E’ finita come doveva finire: la cicciona aveva smesso di cantare da un po’.
I Boston Celtics stravincono il titolo numero 18, facendolo da Gang Green, uno squadrone di operai specializzati.
A Brad Stevens mancherebbero solo i sigari e i dolci (..), ma questi C’s hanno rispettato la storia costruita – settant’anni fa – da Red Auerbach e Walter Brown.
Delle Finals 2024 si scrive all’epilogo, prima si parte con un Bignami sulla franchigia di Boston.
Perché ci vorrebbero quattro tomi, stile Jules Michelet sulla rivoluzione francese, per raccontarne le vicende: ci limitiamo a lampi, facce, episodi, leggende.
I Boston Celtics sono la “cosa” più importante accaduta al basket.
E lo scrive uno che, da bambino, voleva essere Norm Nixon.

RED E WALTER E COOZ

I Celtics furono una delle Original 8 che fondarono la National Basketball Association: di quella nidiata, sono rimasti loro e i New York Knicks.
I verdi nacquero nella BAA, era il 1946, che confluì – tre anni dopo – nell’NBA.
Fu Walter A. Brown, manager del Boston Garden, a idearli.
Scordatevi i megamiliardari di Silverland, Brown era un irlandese del posto che voleva affiancare all’hockey su ghiaccio il basket.
Per identificarsi meglio coi bostoniani e il Massachusetts, scelse – in cinque minuti – il nome Celtics e quei colori.
Le alternative, mai considerate, erano Whirlwinds e Unicorns.
Nel 1950 arrivò Arnold Auerbach come allenatore e le cose non sarebbero state più le stesse.
Nella lega dei cagers, dei roster improvvisati, delle pallonesse, Red creò il futuro del gioco.
Un genio, anche del male, organizzava e pensava palla con estro, dentro e fuori l’arena.
Costruì un ambiente multirazziale, a dispetto di un decennio (i Cinquanta) che di segregazione viveva.
La cazzimma era quella di un ebreo cresciuto a Brooklyn durante la Grande Depressione.
E’ l’unico coach a essersi fatto espellere all’All Star Game, per proteste (sigh).
Una volta, era il 1957, in una discussione sull’altezza dei canestri, Red stese con un pugno Ben Kerner, il proprietario degli Hawks.


Auerbach mise su i training camp, durissimi per gli standard di allora, a inizio stagione.
Utilizzerà quasi sempre 7 schemi offensivi base, ebbene sì, costruendo i successi sull’esecuzione e le variazioni.
Red era il poliziotto cattivo, Walter quello buono: i Celtics erano un gruppo, un’organizzazione basata sul collettivo.
Auerbach, una lince nel leggere il potenziale dei giocatori, ebbe pure fortuna sbagliando (raramente) il suo giudizio.
Bob Cousy, superstar a Holy Cross, arrivò a Boston malgrado il parere contrario di Red.
L’Houdini del parquet divenne la primissima point-guard moderna.
Una stella, il piccolo che portò alle masse il ballhandling creativo, il passaggio no look e dietro la schiena, le zingarate sotto canestro, una leadership tecnica inedita.
In un lustro, sbarcarono Bill Sharman (tiratore di lusso), Jack Ramsey (col quale Auerbach implementò il ruolo del sesto uomo), Jim Loscutoff (mastino difensivo).
Il mosaico si completò, nel 1956, col più grande draft nella storia dell’NBA.

ARRIVA BILL RUSSELL, COMINCIA LA DINASTIA

Per vie traverse, la chiave uno scambio con St. Louis, in un pomeriggio piombarono Bill Russell, Tom Heinsohn e KC Jones: una magata.
Russell aveva già due titoli NCAA in tasca a USF e raggiungerà i verdi – insieme all’altro Dons Jones – via Melbourne, solo nell’inverno del ’56.
In Australia, Bill e KC disputarono il Torneo Olimpico di basket.
Down under, la vernice della rivoluzione (tattica, atletica) che avrebbe cambiato – per sempre – il gioco.
Russell, con lo stile ventrale, faceva 2 e 06 nel Salto in Alto.
All’apertura dei Giochi, USA contro Giappone, Bill deviò una dozzina di tiri dei nipponici, nel solo primo tempo.


Nessuno aveva mai visto un atleta di quel tipo.
L’impatto con l’NBA fu devastante: Cooz e Bill divennero l’asse play-pivot per eccellenza, le stoppate, l’intimidazione di Russell suggerirono ad Auerbach il nuovo contropiede.
Con l’aggiunta dei rimorchi, velocissimi nel caso di Russell e Heinsohn (uno scorer, il possessore di uno dei ganci migliori di sempre), dopo la conclusione primaria e il loro incrocio sotto il ferro.
Gara7 del 1957, il primo anello non si scorda mai.
Opposti ai (fortissimi) Hawks di Bob Pettit, 38 cambi di testa nel punteggio, due OT.
La vinse Ramsey, con un jumper dai 7 metri e mezzo.
Sharman e Cousy (nervosissimi) giocarono male, le matricole fecero pentole e coperchi: Heinsohn 37 punti e 23 rimbalzi, Russell 19 e 32.
Per un tempo che parve infinito, cristallizzato, i verdi vinsero sempre o quasi, condannando una generazione di fenomeni – Elgin Baylor, Oscar Robertson, Jerry West, Wilt Chamberlain – a sconfitte brucianti, a volte beffarde.


I C’s fabbricarono una mistica tutta loro.
Su Russell, il più grande vincente di uno sport di squadra, uno che non segnò mai 20 punti a partita di media, basterebbero alcune cifre ufficiose.
Con le stoppate mai rilevate, farebbero 121 triple doppie in regular season e 32 nei playoffs.
Sommate ancora, a Bill e Cooz e Tom, il cannoniere Sam Jones e Satch Sanders: i verdi non li battevi.
1962, un altro momento cruciale, contro dei Lakers da sballo (Baylor all’apogeo, West già miglior off guard).
Gara7, Frank Selvy pareggiò per LA, con due canestri di fila, a 100.
A meno di 4 secondi dalla sirena, Hot Rod Hundley la passò ancora a Selvy, dai 4 metri, sul lato sinistro.
Il pallone prese il ferro e uscì, arpionato dal solito Russell (quella sera, 30 punti e 40 rimbalzi).
Psicodramma lacustre, Boston la spunterà ancora, 110-107, a dispetto di Baylor (40.6 punti e 17.9 rimbalzi di media nella serie) e West.
Quell’estate i C’s scelsero un campionissimo, John Havlicek da Ohio State, elevando ulteriormente il livello del combo.
Due anni dopo, 1964, Walter Brown morì d’infarto, a 59 anni, in quel di Cap Code.
Auerbach assunse pieni poteri e nel ’66 nominò Russell allenatore-giocatore.
Cooz si era ritirato nel ’63, alla Gang Green si unirono scarti ABL (Larry Sigfried), veterani (Bailey Howell) e proseguirono a vincere.
Il destino felice dei verdi stava tutto nell’incredibile gara7 del ’69 al Forum, con i Lakers favoritissimi.
Una squadra che giocava fregandosene dei suoi limiti, mezza rotta, rappresentata da quel tiro dalla parabola improbabile, scoccato da Don Nelson, che si infilò congelando l’arena.
I palloncini della festa gialloviola rimasero appesi al soffitto, West (37.9 punti di media) pianse di sconforto e Russell di gioia.
11 titoli in 13 anni, la più grande epopea nello sport professionistico di squadra: Bill lasciò lì, in cima al Monte Everest senza bombola d’ossigeno.

HAVLICEK STOLE THE BALL

Nei Celtics l’immaginario è cosa loro.
Auerbach impose gli stendardi, con i titoli e le maglie ritirate: lo scopiazzeranno tutti.
Il parquet incrociato, un rito, la voce gracchiante di Johnny Most (il radiocronista che prendeva in giro gli avversari), un simbolo.
Nei ’70 l’allenatore era un altro Celtic doc, Tom Heinsohn, e quel ciclo (vincente) imporrà definitivamente i verdi come realtà pop di Beantown.
Havlicek, partito come sesto uomo, divenne l’anima della banda.
Il giocatore più sottovalutato ogni epoca, nella carne l’anti Pete Maravich fatto e finito: zero effetti speciali, 2-way, la freddezza nel clutch, tuttofare con pochi eguali.
Un fisico spaventoso: una volta gli fecero una lastra ai polmoni, scoprirono che quei mantici non stavano in una sola fotografia.
Insieme a Hondo c’erano Dave Cowens, centro sottomisura, tecnico e ferocissimo, un manifesto del Celtic Pride, l’All Star Jo Jo White e mister intangibles Paul Silas.
Si aggiudicarono due Finals iconiche.
Nel 1976, contro la Cenerentola Phoenix, con quella gara5 che fu la migliore pubblicità mai fatta alla bellezza del basket.
Nel 1974, sfidando i Milwaukee Bucks, contro il sommo Kareem Abdul-Jabbar all’apice e Big O all’ultimo ballo: la vinsero in 7 partite, al Garden, per sfinimento altrui.
Havlicek salutò la compagnia nel ’78: avesse saputo chi sarebbe arrivato al draft, dal 1979, forse si sarebbe regalato qualche anno in più.

FROM INDIANA STATE, NUMBER 33..

Larry Bird e Magic Johnson, atterrati in una NBA con problemi d’immagine giganteschi, trasformeranno la lega in pochi anni.
L’NBA, in meno di un decennio, si imporrà al mondo.
I C’s con Larry Legend rookie – 1980 – vinsero 32 match in più, l’anno successivo issarono il quattordicesimo banner.
A circondare il 33, scampoli del primo Kevin McHale (un Maestro in post, coi gomiti al tungsteno) e dell’ultimo Tiny Archibald (l’epitome del piccolo di talento), poi Robert Parish e Cornbread Maxwell.
Kodak (nomignolo di Larry, coniato da coach Bill Fitch) giocava con la passione dei poveri e il genio degli eletti: in attacco è stato l’unico – prima di LeBron James – capace di dominare il gioco in ogni suo pertugio.
Ma il Prescelto tre contest del Tiro da Tre, all’All Star Game, non li avrebbe vinti.
Andato via Fitch, dopo uno sweep dai Bucks nell’anno dei Sixers (1983), con una nuova proprietà (da John Y. Brown a Don Gaston) Auerbach rifece Auerbach: fregò la concorrenza.
Un pretoriano verde in panca, KC Jones, e il furto con scasso – ai Suns – di Dennis Johnson, stella invisa a coach John MacLeod, in cambio di briciole (Rick Robey e una serie di scelte).
DJ, un vincente, fu l’MVP ombra (dobermann su Magic, facilitatore in attacco) nelle leggendarie Finals dell’84: quelle del boom (non solo mediatico).
E un tassello fondamentale della superpotenza che disputò quattro finali consecutive.
Un altro anello, nel 1986, con la singola stagione più esaltante della storia: giocavano a memoria, nelle pieghe delle partite, a metà campo condividevano lo Spalding come nessun altra formazione.
Il Bird irripetibile dell’86, magnifico e arrogante, il Macca, DJ, The Chief, più Danny Ainge (agonista nato) e Bill Walton (arma tattica).
Quei C’s si esaurirono in due atti: nel 1988, Larry finì sotto i ferri per operarsi a entrambi i talloni (per rimuovere degli speroni ossei), nel 1986, in vetta, due giorni dopo il draft, una tragedia.

82 A 0, IL GARDEN E LA MALEDIZIONE DEL ’97

Len Bias, pick numero 2, morì per un’overdose di cocaina, al campus di Maryland.
Scoop Jackson, su Slam, scrisse che quei Celtics, con Bias, avrebbero collezionato un 82-0.
Di sicuro, l’eccezionalità dell’All America dei Terrapins, un 4 avanti di vent’anni rispetto all’evoluzione del gioco, sarebbe stata la piscina di Cocoon per alcuni di quei C’s.
Un paio di anelli?
Pensare a un passatore come Bird, in un pick and roll con un lungo freak che tirava come un 3 e col dinamismo di un 2, aveva qualcosa di ucronico.
Gli anni Novanta, con il ritiro di Kodak (1992) e quello di McHale (1993), furono un unicum bostoniano: un decennio senza Celtics competitivi, contender.
Un’altra morte, della stella Reggie Lewis, e un cupio dissolvi di progetti falliti (o stupidi).
Nel 1995 si chiuse l’era del (vecchio) Boston Garden.
Prima dell’abbattimento, di quell’impianto zeppo di fantasmi felici e ingombranti, col numero fisso di spettatori mandato a memoria – 13909: la gente di Boston si portava a casa i pezzi.
Un seggiolino, un cartello, una piastrella.
Quel postaccio (citiamo Bill Russell), sporco, antidiluviano, era l’inferno in terra degli avversari: le docce con l’acqua fredda, i termosifoni a palla a giugno, i finestrini aperti a gennaio, Kareem con la maschera dell’ossigeno, gli insulti e le provocazioni all’uscita della metro.
Auerbach fu messo alla porta, era il ’97, da presidente, senza stile: era arrivato Rick Pitino, a fagocitare tutti i ruoli (alla Pat Riley..), per ricostruire.
L’accolita del 1997, un disastroso 15-67 come record, sembrò almeno funzionale all’apparizione (sognata, desiderata) del nuovo messia.
Tim Duncan, fondamentali, sostanza e classe, pareva cucito dal sarto per la tradizione – nobiliare – Celtics.
Due prime scelte e il 36 percento di possibilità del pick 1: a Beantown vedevano già il caraibico in biancoverde.
ML Carr, executive dismesso, vide la pallina della lottery premiare i San Antonio Spurs: una maledizione, per il trifoglio, una benedizione, per i neroargento (e cinque anelli).

DANNY E I BIG 3

Gli anni Zero, in una NBA miliardaria, vissero di adeguamenti continui.
Paul Pierce, un losangelino (..), alona dall’uno contro uno regale, fu il punto di riferimento di C’s che stavolta rincorrevano la concorrenza.
Passarono Chris Wallace (gm), Jim O’Brian (allenatore), il fromboliere Antoine Walker e si concretizzò una multiproprietà: da Paul Gaston alla Boston Basketball Partners LLC di Irving Grousbeck, Steve Pagliuca e soci.
Danny Ainge, cuore verdissimo, da executive, ribaltò la squadra: un nastro di scambi e scelte portò a Beantown Kevin Garnett e Ray Allen.
Cominciò l’era dei Big 3, l’evo del patto tra superstar che è stata l’NBA fino a ieri.
Il 2008 fu un trionfo, schiantando – di prepotenza – i Lakers di Kobe Bryant e Phil Jackson (seconda edizione).
Quella Gang Green, oltre i tre futuri Hall of Famer, vantava il playmakeraggio atipico di Rajon Rondo, il lavoro sporco di Kendrick Perkins (più il collante James Posey).
Che quel gruppo non sia riuscito nel bis, fu una (sfortunata) coincidenza: nel 2009, KG si sfasciò il ginocchio destro saltando per un alley-oop.
I verdi rimasti (..) furono protagonisti di una serie epica contro i (giovanissimi) Bulls del mutante Derrick Rose: sette partite, sette tempi supplementari (!) complessivi.
Nel 2010, persero le Finals in un deja vu – l’ennesimo – coi Lakers: in una gara7 giocata col pallone medico, furono Ron Artest e Pau Gasol, più del Mamba, a deciderla.
In gara6, l’attimo fuggente: l’infortunio a Perkins, vitale nelle piccole cose a rimbalzo e nei blocchi.
Non sappiamo se un altro uomo sul pino, al posto del pastore di tori Doc Rivers, avrebbe gestito meglio quell’emergenza.
Nel declivio, all’epilogo manageriale, Ainge fece la mossa giusta: nel 2013 spedì Pierce, Garnett, Jason Terry (e DJ White) ai Nets, per quattro giocatori, tre prime scelte e un pick swap.
Nel ’16 la scelta divenne Jaylen Brown, nel ’17 Jayson Tatum.
A supervisionare un’altra scalata vincente, il sapere cestistico di Brad Stevens, prima allenatore poi manager: il bandierone numero 18 viene preparato nel suo ufficio.

MATH BASKETBALL

Il TD Garden è oggi un gioiello – 19156 posti, in un multicentro con albergo, negozi, ristoranti, ecc. – che coniuga tradizione e incassi, un marchio (di successo) e un’appartenenza con l’intrattenimento pop.
Norm di “Cheers” con i raggi laser e il megaschermo dell’introduzione dello starting five.
Piano piano, nel 2021 l’asset definitivo, i verdi di Stevens – prima con Ime Udoka, poi con Joe Mazzulla – sono (ri) diventati i capintesta della Eastern.
Nel ’22 la pillola amara di Finals perse contro una dinastia ai titoli di coda, gli Warriors di Steph Curry.
Il ritorno del maestro venerabile Al Horford, due stelle allenabili (i due J’s), 2-way versatili (Derrick White) e la terza opzione offensiva nello stretch 5 Kristaps Porzingis.
L’ultimo passo, quello più arduo, è stato compiuto con la firma di Jrue Holiday, uomo ovunque – attacco e difesa – decisivo nell’orientare l’inerzia delle contese: un piccolo Hondo, Jo Jo White, DJ.
Nessun All Star col codazzo di amici e sottoposti.
Il ’24 dei C’s oltraggia un luogo comune di questa NBA, ovvero che la stagione regolare conti un tubo.
Bastava vederli a febbraio: al 7 marzo erano l’attacco numero 1 e la difesa numero 2.
Boston si impone di sistema, soprattutto difensivo: col quintetto speciale, stoppano, tengono la posizione, giocano la seconda linea, cambiano, sporcano il lato debole e coprono i tiri dall’angolo.
In gara1 dello showdown, i raddoppi immediati su Kyrie Irving (regista Holiday) erano uno spettacolo.
Holiday e White sono il miglior back-court difensivo della lega.
Di là c’è la ricerca analitica della tripla e del corridoio, di tiro e passaggio, che – con i 5 fuori – innesta triple e penetrazioni.
Con una buona percentuale da lontano, e la circolazione di palla giusta, un random cut dietro l’altro (con Dallas è stata una festa..), il giochino stritola l’altra squadra.
Poiché sono anche bravissimi nella transizione difensiva, Boston si è salvata, di fortuna e palle perse sciagurate, coi Pacers in gara1 delle finali orientali.
Al contrario dei Nuggets, i Mavs proponevano un piano tattico facile, mismatch favorevoli, per le caratteristiche del trifoglio.
Tenere fuori dalla painted Daniel Gafford e Dereck Lively, attaccare nei giochi a due Luka Doncic, coinvolgendolo sempre.
Le cifre di Tatum nei playoffs ’24, alla Larry Bird, senza essere Larry Bird: ha scelte offensive così così, ma quel j e quella partenza da ghepardo vanno rispettate.
I rimbalzi lunghi, le piccole cose nella spazzatura del match, la difesa sui 5, rivelano l’assenza di ego (malato, ipertrofico) tipica di altre stelle.
Jayson e Brown, che si spende in single cover su Doncic, il 43.1 di usage nel primo tempo di gara3 dello sloveno è stato il poster della serie, hanno permesso questo linguaggio collettivo del corpo.
Non sappiamo se la band Mazzulla, abbastanza giovane, costruirà una dinastia.
Di sicuro saranno una superpotenza orientale, per un bel po’ di tempo.