DIARIO DEL TOUR 2024

Diario tecnico, sentimentale, del Tour numero 111.
Amarcord, con la memoria di un piccolo elefante, risaliamo alla nostra – prima, vera – Grande Boucle.
1980, tivù svizzera, ogni tanto beccavamo pure il segnale di TF1.
Zero corridori italiani alla partenza: Moser e Saronni, col contorno di narratori ben prezzolati, si sfidavano al GP Montelupo.
Promessa mancata di double quella volta, Bernard Hinault arrivava dal Giro d’Italia dello Stelvio con Jean René Bernaudeau, e olandesi ovunque a comandare.
Joop Zoetemelk, la TI Raleigh, Hennie Kuiper e il FC Knudde.
Avevamo una cartina francese Michelin, rossa, per seguire la gara e una pagina della Gazzetta il giorno dopo.
Oggi, surfando nel villaggio globale, esplodono migliaia di video (virali) al minuto, sulla corsa gialla.

29 giugno, Firenze-Rimini

L’oceano di folla e di colori ci ricordano l’essenza del ciclismo e del Tour.
150000 persone in più, rispetto alla media, a Firenze, il sabato della festa.
Oggi la tappa congiunge l’Italia migliore, le facce diverse della stessa moneta, due assoluti: Gino Bartali e Federico Fellini.
Tutti abbiamo vissuto un momento Bartali, incontrandolo.
Perché Gino era la Madonna Pellegrina, alla cena dei fedelissimi o al Giro su una vettura che lui guidava, sponsorizzata da un magliaro.
Lo incrociavi, si fermava, bifonchiava qualcosa, ti dava una cartolina firmata e procedeva, senza sforzo, a benedire la processione di nonni, tifosi, con nipoti al seguito.
Lo guardavano (guardavamo, anche noi di estrazione coppiana) come fosse il (nostro) Papa, il (nostro) Presidente (della Repubblica dello Sport).
Una volta, nel Cuneese, c’era la maxicrono al Giro 1990, si fermò – tra un corridore e l’altro – e parlammo per 5 minuti.
Il Bartali sottolineava i rapporti (troppo) duri spinti da Marco Giovannetti, lui i toscani li seguiva manco fossero suoi figli, noi che si era finalmente trovato il prossimo vincitore tricolore del Tour – la maglia rosa Gianni Bugno.
Si potrebbe scrivere un libro simil “Ulysses” di Joyce, su l’uomo di ferro e l’incredibile Grande Boucle 1948: un pezzo di storia del nostro paese.
Lui che rosolava Jean Robic sul Colle dell’Izoard, di scatti, 24 ore dopo l’attentato di Antonio Pallante a Palmiro Togliatti, fuori Montecitorio.
Senza la guerra, quanti Tour avrebbe vinto?
Lui – dalla resistenza organica aliena – che pareva costruito apposta per quei massacri di chilometri e strade infami.
Quando ebbe dei problemi economici, conseguenza di investimenti sbagliati e amici (..) sanguisuga, fu Ezio Granelli della San Pellegrino ad aiutarlo: uno che non aveva dimenticato il nostro debito verso Bartali.

La Firenze-Rimini è una Nove Colli con 7 gpm ed è un’apertura tostissima, col bonus della canicola.
222 chilometri ufficiosi, col trasferimento fiume (pure di gente), e 3600 metri di dislivello.
All’approccio del Colle del Barbotto, palestra degli allenamenti di Marco Pantani, sono già alla deriva – a un quarto d’ora – Mark Cavendish, che rigetta di stomaco, scortato dagli Astana, e Fabio Jakobsen.
Si mettono davanti gli UAE Emirates e pare la ventiduesima tappa del Giro: si staccano tanti.
Sul San Leo, a 50 km dal traguardo, l’attimo fuggente.
Lo coglie Romain Bardet, con uno scatto dal plotone dei big, colmando il minuto che lo separava dai resti della fuga.
Tra Montemaggio e San Marino, lui e il compagno Frank Van den Broek, che l’ha aspettato, inscenano un Trofeo Baracchi.
Il piano DSM, di Julien Jurdie, è perfetto.
Dietro, l’EF Education, che avrebbe Alberto Bettiol come punta, manda via Ben Healy che rimane a bagnomaria.
Non capiscono nulla, esauritosi il tentativo del folletto irlandese, costretti poi a inseguire il duo.
Van den Broek impressiona per forza e brillantezza: l’olandese – classe 2000 – arriva dal rugby e sembra uno da piani alti.
A Rimini, arrivo cinematografico, Bardet – 33 anni, al suo ultimo Tour – indossa un giallo splendente.
A 5 secondi dalla coppia DSM, Wout Van Aert vince (facile) la volata del gruppo, davanti a Tadej Pogacar.
Il fuoriclasse fiammingo, felice e deluso, piange: la Jumbo Lease A Bike non ha speso mezza pedalata per rincorrere quelli davanti.
L’opzione Red Bull è sempre più nell’oroscopo.
Per ribadire una banalità: il Tour dei big comincia domani.

30 giugno, Cesenatico-Bologna

200 chilometri di gita per le colline bolognesi.
L’edizione 111 vanta un disegno sbilenco, cortesia del moloch olimpico parigino.
La partenza italiana, il Galibier di scorta, un solo vero tappone alpino prima dell’epilogo nizzardo e una gara tatticamente bloccata dai quattro molossi.
Il fugone dell’una e mezza e un pubblico mostruoso, a strati, come una gigantesca torta di mele che si spiega dal centro di Bologna al San Luca, ci accompagnano nel circuito finale.
Siamo subito a due corse in una, un classico tappista.
Per la vittoria di giornata, Kévin Vauquelin se ne va, di giustezza, all’ultimo passaggio sul San Luca.
Ad aprile Vauquelin era arrivato secondo, in un pomeriggio da lupi, con neve e pioggia, alla Freccia Vallone.
Normanno, 23 anni, pedalatore di classe, appartiene a una (notevole) nouvelle vague di talenti galletti.
Oggi si impone, in bello stile, nella calura estiva della Dotta, su una bici con un marchio leggendario (Bianchi).
A 36 secondi Jonas Abrahamsen, che in questi dì sta spopolando, un Hulk biondo e a pois come la Pimpa.
Tra i favoriti, puzza di bruciato quando – nella bolgia del San Luca – Adam Yates si mette a scandire il passo.
Pogacar spara ai 600 metri dal gpm, dopo le Orfanelle, e l’unico a rimanere a ruota è il convalescente Jonas Vingegaard.
Due extraterrestri: San Luca – 1900 metri, 10.9 % media – volato in 5’05”.
Pogi viene giù, in discesa, come una moto, il Pescatore lo tiene.
Nel pianoro, in Bologna, Remco Evenepoel (bello spianato) si riporta sui duellanti con Richard Carapaz, sempre al posto giusto e senza tirare un metro, l’hombre dell’Ecuador.
Pogacar va in maglia, anche se non avrebbe voluto (ci ha pure provato, a prendere un buco), Primoz Roglic a 21″ – con Egan Bernal, Bardet e un po’ di UAE e Visma di scorta – desta qualche perplessità.
Rogla lassù, dal portico più lungo al mondo, aveva vinto 3 Giri dell’Emilia e una crono del Giro.
Segnale di fumata nera.

2 luglio, Pinerolo-Valloire

Dall’Italia alla Francia in una specie di bonsai alpino, lungo (?) 136 chilometri.
Mignon non sono le stradone, il Forte di Fenestrelle, la torre di Vittorio Bonadé Bottino al Sestriere, il monolite Galibier.
Si parte alla garibaldina o alla sanculotta, Mathieu van der Poel nella fuga, vista Parigi 2024, ma le litorine UAE Emirates (Nils Politt, Tim Wellens, Marc Soler) suggeriscono il tema del prologo in alta quota.
Il Col du Galibier versante sud preso dal Lautaret è una salita monotona, che non finisce più e sfinisce.
Qui, arrivando dall’Izoard, nel 2011 Andy Schleck – coadiuvato da un superbo Maxime Monfort – fece un numero di grande classe.
Il vento in faccia, nel vallone, prima della svolta a destra verso il mostro, è una certezza.
Si fanno avanti pure i Soudal Quickstep, si rivede Gianni Moscon, con un Remco Evenepoel che pare sotto una campana di vetro.
Ma la sequenza UAE Team Emirates-Visma Lease A Bike sembra il bordone del Tour ’24.
Ai 7 dalla vetta, una tirata di Joao Almeida rivela il bluff della maglia gialla Carapaz, dell’altro gemello Simon Yates, di Tom Pidcock e di Enric Mas.
A Vingegaard rimane solo Matteo Jorgenson, a Roglic nemmeno Aleksandr Vlasov.
Ai 4 e mezzo, la corte di Pogacar ha isolato tutti, ai 3 e mezzo, Roglic è l’ultimo di una fila a otto.
Juan Ayuso e Almeida tirano il collo ai passeggeri della carrozza quando, a 834 metri dal gpm, sul tratto al 9 percento, scatta Pogacar.
Vingegaard gli sta sotto, per 333 (sigh) metri, poi – saggiamente – molla la presa.
Il forcing emiratino e lo sloveno si sbranano il primato 2019 di Nairo Quintana, 20’46” contro 22’26”.
Pogi scollina e si fionda giù alla Kenny Roberts, il Pescatore – un tornante sopra – perde piano piano brillantezza.
Evenepoel, terzo sul Galibier a 15″, nel tratto più spericolato della discesa – i primi 7-8 chilometri – conferma di non essere un drago nelle picchiate.
Il Galibier poi, con quelle curvacce a gomito, gli strapiombi, i pietroni, nessun parapetto, incute rispetto.
Un pimpante Carlos Rodriguez, capitano sul campo del Team Ineos, salta il belga a mo’ di birillo.
Finite le chicane del gigante alpestre, nel falsopiano a ridosso di Valloire, si raggruppano (un po’ bruciacchiati..) gli inseguitori di Pogacar.
Che rifila il primo sberlone del Tour.
A 35 secondi Evenepoel, Ayuso (fenomenale), Roglic, Vingo e Rodriguez.
Mikel Landa e Almeida arrivano a 53″, prima del baratro.
Il nono, un ottimo Giulio Ciccone, becca già 2’41”.
Con quel distacco gli ex capitani di Rodriguez, Egan Bernal e Geraint Thomas.
A 4’01” Jai Hindley, Mas e lo Yates della Jayco.
Naufraga Carapaz a 5’10”, dispersi Bardet (9’53”) e Pidcock (11’44”).
E siamo solo al quarto giorno.

3 luglio, Saint Jean de Maurienne-Saint Vulbas

Arrivando nell’Ain, luoghi di battaglie napoleoniche, ci sovviene che il corso Bonaparte – piccolo e tosto – era un bradicardico da 38 pulsazioni al minuto.
Si corre spediti verso il volatone, tra uno scroscio di pioggia e passaggi incasinati nei paesi.
Una preparazione lunghissima, col serpentone che si rompe e si ricompone a 55 chilometri orari.
Nella tonnara, Mark Cavendish (un altro piccolo e tosto) e Fernando Gaviria si spalmano (..) uno contro l’altro: nel pertugio giusto, passa il mannése di Quarrata.
E’ sempre la sua volata, se è nella mischia, corpo a corpo, dove può ballare con la bici e fare quell’accelerazione, brutale.
A 39 anni, Cav passa Eddy Merckx come plurivittorioso alla festa di luglio.
A Mark, un segno del destino, fuoriesce la catena della sua Wilier appena alza le mani sulla fettuccia bianca.
Il Manx Missile fa 35, battendo Jasper Philipsen, Alexander Kristoff, in tre siamo a 34 anni e 63 giorni di età media, e Arnaud De Lie.
Poco dietro, nella gradinata dello sprint, Alex Zingle salta Mads Pedersen (caduto) a 65 orari.
Cannonball, negli ultimi 200 metri, ha toccato i 69.4..
Farebbero 15 anni, 11 mesi e 22 giorni dalla prima vittoria, eravamo a Chateauroux nel 2008, un primato ancor più impressionante se pesiamo la pericolosità estrema del mestiere.
Dopo il traguardo, Cav lo abbracciano tutti: gli Astana, G Thomas, i due Van, Biniam Girmay, Pogacar.
I tre figli e la moglie Peta Todd.
Phil Liggett piange in diretta tivù.
In Italia, tra Appennini e San Luca, debilitato, aveva rischiato il tempo massimo.
Forse lo sprinter puro più forte di sempre, considerando che altri, Rik Van I e II, Miguel Poblet, Freddy Maertens, erano fuoriclasse universali.

Se è banale esaltare i grimpeur, l’afflato poetico di uno scatto in salita, fino ad arrivare all’esaltazione del garagismo più scimunito, la stessa cosa non si può sostenere coi velocisti.
Che lottano, non solo fra loro, a spallate (testate), e contro il luogo comune che una tappa che si conclude in volata sia d’amministrazione, in attesa di (ben) altro.
Lo sprinter è un’esagerazione vivente e una contraddizione (un fondista che esalta le sue fibre bianche): ha nel dna una follia comparabile – altrove – solamente nei discesisti dello sci alpino, nei saltatori dal trampolino e nei centauri delle moto.
Un esercizio maledetto, una questione di centimetri e d’asfalto (assaggiato, grattuggiato), acrobazie, spallate, sportellate e trucchi banditeschi.
Cento metri di buio morale che, con la modernità, sono diventati almeno 5 chilometri.
L’adrenalina a mille, una progressione quasi mai lineare, talvolta un arabesco, che produce – per qualche secondo – il wattaggio di un motorino truccato.
E’ un atto di giustizia che uno sprinter sia in testa alle vittorie di tappa del Tour.
Lo meritano, nei decenni, nei secoli, quella razza matta.
Rik Van Looy che inventò il treno, il suo era rosso Faema, e impose il 13 dietro, da spingere, Maertens che portò il 12 come regola, una belva che non si fosse rotto, cadendo al Mugello (1977), avrebbe attentato ai record quantitativi di Merckx.
Il meccanismo (quasi) perfetto del frecciarossa (Saeco) di Mario Cipollini, che popolarizzò l’11.
Cavendish e Mark Renshaw, il più micidiale uno-due, velocista più pesce pilota, del ciclismo moderno.

7 luglio, Troyes-Troyes

Ieri giornata pesante: pioggia, vento, drizzoni e – al Giro d’Austria, scendendo il Grossglockner – la morte di André Drege.
I riflessi mediatici dicono tutto di uno strapaese (il nostro): la notizia, sui media generalisti, precedeva quella del bis di Girmay a Colombey le Deux Eglises.
Ai milioni di persone sulle strade italiane, che ammiravano il Tour, non corrisponde più una cultura mediatica adeguata.
Rispetto e conoscenza, dell’argomento, sotto zero.
I giornali e le tivù parlano sempre più alla bocca dello stomaco, sono usa e getta (nella spazzatura).
Colombey, anche e soprattutto nel ’24, richiamava la figura di Charles de Gaulle.
Nel fine settimana delle elezioni francesi, ricordare il Generale che combatté Vichy e i nazisti, ha qualcosa di metafisico.
Chissà cosa avrebbe detto De Gaulle, delle pantegane bionde che sono comparse qui e la’, sulle sponde opposte dell’Atlantico.

A Troyes, le strade bianche della Champagne chiudono il primo terzo di Grande Boucle.
Un rodeo con 14 tratti di “chemins blancs”, 199 chilometri e 32 di sterrati.
Succede di tutto, a ogni segmento di ghiaia e terriccio, a ogni cote; succede poco, anzi niente, in classifica.
Ma chi se ne frega.
Ai 130 dal traguardo, i quattro (tre più uno) già si bastonano.
Pogacar una pantera gialla, Evenepoel – che in teoria sulle strade bianche dovrebbe difendersi – fa due aperte da paura.
Vingo, coadiuvato da una Visma efficiente (Matteo Jorgenson è forte forte), recita la parte dello stopper.
Ai meno 77, Remco va via, Tadej si aggancia con Jonas a ruota: Roglic, staccato per la seconda volta, è in difficoltà evidente.
Siamo dopo lo strappetto di Chacenay, a fianco il fiume Ource.
Il danese non collabora, Pogi e l’iridato di Wollongong – inviperiti – mollano la presa.
Pale eoliche, polverone e campagna sperduta, sembra un western di Sam Peckinpah.
Vlasov rovina in un fosso, si rialza: in albergo, scoprirà di essersi fratturato la caviglia sinistra.
Davanti, tra i fuggitivi nel bel mezzo della teoria del caos, lasciate le vigne, ci prova un eccellente Jasper Stuyven.
Che la meriterebbe, non vince dalla Milano-Sanremo 2021, ad aprile cadde con Van Aert all’Attraverso le Fiandre, ma viene ripreso a 700 metri dallo striscione, nel tira e molla di quelli dietro.
Si impone un altro classicomane, in uno sprint ristretto tra impolverati, Anthony Turgis, di mezza bici su Pidcock e Derek Gee.
46 chilometri all’ora, la media.
Il riposo a Orléans ci consegna una Generale con dei ruoli predefiniti, ma corta.
Pogi per il double, Evenepoel a sondare i suoi limiti (e quelli dei rivali), il Pescatore a francobollarli.
Rogla, non pervenuto, pare quello con meno margini (d’errore e di benza nel serbatoio).
La sceneggiatura ASO, criticabilissima, funziona.
Rimaniamo col pensiero ottobrino, della presentazione nel 2023: in un Tour atipico, i Pirenei potrebbero essere Cassazione.

10 luglio, Evaux Les Bains-Le Lioran

Tappaccia molesta nell’Alvernia, in un mercoledì col caldo umido che attanaglia la carovana.
Si arriva a Le Lioran: un comprensorio sciistico voluto, fortissimamente, dal Presidente Georges Pompidou.
Sei salite, 4 gpm nel bordone conclusivo, per un totale di 4350 metri di dislivello e 211 chilometri.
L’andatura, folle, annuncia che la truffade rimarrà di traverso a un po’ di atleti: 50 orari, dopo 2 ore.
Il Massiccio Centrale si accartoccia su se stesso, verde e assolato, al centro della Francia.
Il clou del pomeriggio è un vulcano spento, il Puy Mary.
Lassù, nell’affastellarsi delle ere, sono passati (per primi) Federico Bahamontes e Lucien Van Impe.
L’UAE Team Emirates la prende di petto: Pavel Sivakov fa gli straordinari e Sean Yates mette i resti del gruppo in fila.
Ai 32 dal traguardo, nel pandemonio del pubblico che assedia la strada, c’è una curva che celebra la carriera dell’enfant du pays Romain Bardet.
In testa, occhi sulla ruota davanti, la gara esplode dopo il virage Bardet.
Ai 31,5 sgattaiola via la maglia gialla, nel tratto al 12 percento, e Vingegaard non risponde.
Il Pescatore prova a rientrare in progressione, ma Pogi imbocca la discesa con 178 (..) metri di vantaggio.
A fine planata, lo sloveno ha 35 secondi sulla coppia Vinge-Roglic, nel falsopiano rientrano sui due (a fatica..) Evenepoel, Rodriguez, Yates, Almeida e Ciccone.
Sul Col de Portus, con un approccio al 12 percento, il danese inserisce il DRS.
Ai 2 e mezzo dallo scollinamento, l’ultimo ad arrendersi è il suo ex capitano Roglic.
Mancano meno di 15 chilometri al traguardo, quando Vingegaard riprende Pogacar.
Lo sloveno fruga nelle tasche, alla ricerca di carbo, ma i parziali del Pertus non possono essere equivocati.
Sui 4,4 km – all’8,6 % – Vingo è venuto su al pari di uno scooterino.
I 12’02” sono 1905 metri all’ora di VAM.
Non che Pogi (12’33”) e l’ambo Remco-Primoz (12’49”) siano andati piano, eh..
Dopo l’ultima collina, il Col de Font de Cère, i duellanti hanno mezzo minuto sulla coppia di inseguitori.
La corsa ha un’ora d’anticipo rispetto alla tabella di marcia più veloce.
Alla fine, la media sarà 42,48 km/h.
A uno e mezzo dal traguardo, nel bosco, in un tornantino bagnato, infido, cade Roglic.
L’arrivo è dopo una semicurva, che sale al 3 percento.
Clamoroso al Cibali, il leader Visma lancia la volata lunga, all’interno, e batte di una spanna una maglia gialla “stanchina”, sul colpo di reni.
Pogacar paga il fuorigiri, il caldo e incassa una sconfitta preoccupante in vista della due giorni Pirenaica.
Vingegaard, 98 giorni dopo la caduta nei Paesi Bassi, manda un messaggio a Tadej e ai suoi.
Dietro, Evenepoel a 25″.
Ciccone, sempre più in palla, a 1’47” precede Almeida, Yates, Landa e Rodriguez.
C’è un cratere tra Pogacar e Vingegaard e la ciurma restante.
Il Pla d’Adet – sabato – ci svelerà definitivamente i rapporti di forza tra i due.
Fumata nera?

13 luglio, Pau-Pla d’Adet

I Pirenei sono storia, asfalto crepato, pubblico coi camper.
Il Pla d’Adet ci ricorda Tour monotoni, mica belli come questo, ma con la scossa di quell’arrivo maligno.
L’82 di Beat Breu, il postino della Cilo Aufina, che scattava in faccia a Bernard Hinault e Joop Zoetemelk,
In gruppo è tornato il covid, motivo del ritiro di Pidcock, e c’è già tanta stanchezza: tornano a casa pure Bettiol e Louis Vervaeke.
L’UAE ha perso Ayuso, i Visma sono la fotocopia sbiadita dello squadrone del biennio 2022-2023.
Il Col du Tourmalet, classico Souvenir Jacques Goddet, è più che altro una parata, col plotone della maglia gialla guidato dal corazziere Nils Politt.
Tra i primi a staccarsi all’attacco del Col de Beyrède, Jai Hindley.
Ieri non era partito Primoz Roglic, per gli strascichi dell’ennesima caduta: mediocre (sfortunata) la vernice della nuova Red Bull Bora.
Da Saint Lary Soulain, il Pla d’Adet comincia subito cattivissimo, a picco, come il sole.
Sul muraglione all’11 percento, con Almeida pacemaker, si isola Adam Yates.
A Vingegaard è rimasto solo Jorgenson: Tadej, vedendo la scena, cambia piano in corsa e di corsa.
Degli scapigliati in fuga, sopravvive quel casinista di Healy.
Ai 4,6 su un tratto all’11 percento, Pogacar scatta: fa una velocità massima di 35,4 all’ora e per un minuto – al 9 % di pendenza – i 27.
Sconquassa tutti.
250 metri con Yates, Healy alla deriva, e ai 4 rinforza nuovamente.
Ai 3,7 Vingo stacca Evenepoel ma è nel budello all’8 percento, in un corridoio di scalmanati (fin troppo) e assiepati, che si rivela meno potente di Pogi.
Ai meno 2, il danese è a 21 secondi, Evenepoel a 38, Rodriguez a 44.

Nel 1976, quassù si decise la Grande Boucle.
Fu il grande Luis Ocana, al dessert della carriera, che aiutò nel fondovalle Van Impe, a scavare il vantaggio decisivo tra il piccolo belga e Zoetemelk.
Alla Gitane di Lucien il diesse era Cyrille Guimard, vecchio sodale (alleato) di alcune (sfortunate) campagne di Ocana – ferocissimo – contro Eddy Merckx.
Quel luglio, cosa rara per il meteo del Novecento, si bolliva sotto l’anticiclone africano, ovvero lo standard climatico di oggi.

Il Pla d’Adet, all’epilogo, è uno stadio naturale, col prato al posto delle seggioline e la mura panoramiche come tribune.
La pantera gialla va su a 90 pedalate al minuto, una furia, Vingo (molto) più duro.
13 luglio, tredicesimo successo al Tour di un Pogacar sempre più padrone.
Il Pescatore a 39″, Remco a 1’10”, Rodriguez a 1’19”; Ciccone precede Santiago Buitrago, Yates, Felix Gall, Jorgenson, Derek Gee, Landa e Almeida.
Adesso la classifica è delineata: Vingo a 1’57”, Evenepoel a 2’22”.
Il quarto, Almeida a 6’01”, è quasi doppiato (..): il Pla d’Adet sentenzia, più che notificare.

14 luglio, Loudenville-Plateau de Beille

47 chilometri totali di ascesa, spalmati su quasi 198 di frazione, 4 gpm e 4800 metri di dislivello: nella domenica della Presa della Bastiglia si fa la festa al gruppo.
Fra gli attaccanti di giornata, i delusi della classifica – Hindley, Mas, Carapaz – Waldo Healy (immancabile), atleti di belle speranze (Tobias Johannessen), magari deluse (Laurent De Plus).
Dietro, la Visma non molla l’osso e va spedita.
Pirenei verdi e brutti: asfalto bitumato, folla seminuda e bungalow.
Le Madonne appaiono solo in posti così.
Nella notte (europea), in America, un hillbilly ha sparacchiato contro Greg Stillson.
Il Col d’Agnes è un buco nel bosco, coi tornanti che bollono, e i 38 orari di media in cima annunciano la tattica (arrembante) dei gigliati.
Wilco Kelderman pesta forte: la rete è già a 25 minuti, Cavendish e i suoi Astana a 32.
Nella vallata che porta a Tarascon sur Ariége, il termometro segna 30 gradi centigradi: il gruppo maglia gialla, a quell’andatura e con quel caldo, diventa un gruppettino.
La partita a scacchi si risolve lungo le pendici di Plateau de Beille, un bricco bruciato dal sole, laddove nel ’98 si impose un Pantani doc, in un Tour storico e di torrida tristezza.
I primi chilometri – 5000 metri percorsi a 20,2 di media – sono martellati dal forcing infernale di Matteo Jorgenson, in modalità Gran Premio delle Nazioni.
L’americano, miglior luogotenente di Vingegaard, potrebbe diventare un ras polivalente del plotone.
Giri o classiche, nessuna differenza.
Si staccano Almeida, Ciccone e Gall.
Ai meno 10, mentre Rodriguez rimbalza indietro dopo l’ennesima trenata di Jorgenson, Vingo ci prova su un nastro all’11 percento.
L’unico a rimanere con lui, Pogacar.
Il danese, a palla, in 200 metri distanzia di 54 Evenepoel.
Ai 9, le due litorine piombano sui fuggitivi e li saltano: Carapaz, per vedere l’effetto che fa, li accompagna per 150 metri e poi – giudizioso – desiste.
Vingo esegue una cronoscalata, a manetta, con Pogi a ruota: maglia a pois, dorsale 1, maglia gialla, dorsale 11.
Ai 7,3 – in una fornace – i duellanti rimangono senza borracce.
5,3 al traguardo e Vingegaard accelera, aggrappato alla sua Cervélo, al limite; appena decelera, Pogacar (pure lui al massimo) piazza la botta su una rampa al 9 percento.
300 metri e il vantaggio dello sloveno si allarga, al sagomato dei 4 è di 18 secondi.
Vingo va di spalle, continua a cambiare rapporto: la Grande Boucle, tra il Pla d’Adet e Plateau de Beille, è in frigo.
KO tecnico.
Pogi à bloc, 28 all’ora sul 7 percento, ai 23 sui tornanti.
325 metri sul danese, sfatto e orgoglioso, 1864 di VAM: un alieno.
Titoli di coda, a una settimana da Nizza: il Pescatore a 1’08”, in GC significano 3’09”, Evenepoel a 2’51” (5’19” nella Generale).
Giù, distacchi da sveglia: Landa a 3’54”, Almeida a 4’43”, Yates a 4’56”, Buitrago e Rodriguez a 5’08”, Carapaz a 5’41”.
Ciccone a 6’29” – fanno 100 tappe senza un successo parziale italiano, un record (amaro il giusto).
Dal trentasettesimo, siamo oltre la mezzora.
In classifica, dopo il trio di fenomeni, il quarto – Almeida – e il quinto – Landa – sono rispettivamente a 10’54” e 11’21”.
La Fossa delle Marianne.

21 luglio, Monaco-Nizza

Parabola perfetta, quella di un grande ricciolo partito dall’Italia che si conclude dove nacque Giuseppe Garibaldi.
A Quai Papacino, nel vecchio porto, cominciò l’avventura dell’eroe dei due mondi.
Sulla Promenade des Anglais, la Baia degli Angeli col mare blu, finisce un Tour storico.
Pogacar da patron, all’apice assoluto, al pari di Coppi 1952 e Merckx 1970.
Un K2, la doppietta, in una stagione che potrebbe regalarci due triplette: lo sloveno si adatta bene al Mondiale svizzero, che sembra il caro vecchio Campionato di Zurigo, e Mathieu van der Poel alla kermesse olimpica di Parigi.
Pogi ha stravinto 5 tappe in giallo, meglio dell’irresistibile Laurent Fignon 1984, e indossato la maglia di capoclassifica – tra Giro e Tour – 39 volte, due giorni in più del Cannibale nel 1970.
Inutile stracciarsi i vestiti per les italiens, che erano (solo) otto in Toscana.
Dieci anni fa, la domenica del trionfo di Vincenzo Nibali, scrivemmo che il (grande) campione siciliano sarebbe stato l’ultimo dei mohicani.
Il movimento aveva già sbagliato tutto: e nell’evo che più evolveva il mestiere (i mestieri) del ciclista professionista.
La mancanza di un tappista da Tour è la chiave: è lui a fare la differenza, mediatica e pop, in Italy.
Si riparte da lontano, con una rincorsa stile quella di Antonin Panenka per il cucchiaio, con qualche nome promettente (Giulio Pellizzari, Giacomo Rosato..).
Il ciclismo dei protocolli alimentari personalizzati a fruttosio e glucosio, del test col monossido di carbonio, dei 150 watt guadagnati (in un decennio..) con la ricerca aerodinamica, consente d’improvvisare solo sulla strada.
Dopo Red Bull, arriva anche la Cina con XDS Carbon Tech.
Una compagnia manufatturiera delle bici in carbonio, che rileva il gruppo Astana e mette sul piatto 60 milioni d’euro.
Il circuito World Tour dell’UCI tende a una piccola Champions League, noi abbiamo consiglieri comunali – di Milano – che si lamentano delle piste ciclabili e insultano i morti ammazzati dalle auto.
L’Africa non si cerca più in giardino, tra l’oleandro e il baobab, ma è già qui a Nizza, sul palco, con la maglia verde di Biniam Girmay e un pezzo di continente pronto a emularne le gesta.

Alla faccia della passerella, la cronometro tra Principato e Nizzardo è un esercizio di abilità tecniche e performative.
Si corre fra due ali di spettatori e il colpo d’occhio – tra mare, montagne, droni e tracciato toboga – è uno spettacolo talmente ASO da sembrare un filmetto Netflix.
33,7 chilometri, sulle strade marzoline della Parigi-Nizza, all’insù (La Turbie, Col d’Eze) e all’ingiù, fino al lungomare.
Da Monaco, il paradiso dell’elusione fiscale (tutti insieme appassionatamente, gli sportivi..), l’attacco verso le colline – con tre settimane di Tour nelle gambe – non è semplice.
Rimaniamo dell’idea che la domenica dell’epilogo dovrebbe proporre altro, non una prova contro il tempo (dura) come questa.
Afa, casinò, yacht e ville con piscina: nostalgia canaglia per i Campi Elisi, la torre Eiffel, il Louvre.
Evenepoel, tiratissimo, pare un marine e in maglia bianca sta benissimo.

Carapaz, vestito a festa con la tutina morbillo, si gode la òla dei tifosi.
Jorgenson casca nell’abitato di Monte Carlo, dopo la partenza, ma con Almeida è il migliore degli “umani”. Ciccone chiude stanco, scarico, e viene passato in tromba da Gee.
I tre big partono forte: pedalano bassi, fendono (raccolti) l’aria e le stradine, come spade.
Sul Col d’Eze, le velocità confermano le impressioni di questi giorni: Evenepoel a 34.8 orari, Vingegaard (monocorona da 56) a 35.3, Pogacar a 35.8.
Dei motoroni, chi ha più benza nel serbatoio è sempre lo stesso.
La maglia gialla (60 e 46 davanti, 34 e 11 dietro) gioca con la specialissima nella discesa: in un passaggio, plana su Nizza ai 93 all’ora.
Pogi versione TGV trionfa, nella baraonda, alla media di 44,5 km/h.
L’ultima maglia gialla a vincere tre tappe consecutive fu Gino Bartali nel celeberrimo ’48: la chiusura ideale, per una Grande Boucle partita da Firenze.
Finisce il Tour, arrivano mogli, fidanzate e figli, parte la cerimonia, il sole (bellissimo) tramonta sulla carovana: si ride, si piange (Remco, sollevato da quello stress..), si festeggia.
Sipario.

“Non so se Tadej comprende cosa ha realizzato quest’anno.” (Tim Wellens)

Da quell’albergo di Montgeron, nella banlieue a sud di Parigi, alle 3 e 16 del pomeriggio, il primo di luglio 1903 (era un mercoledì), la Grande Boucle ha raccontato un romanzo che ci ha portato a vedere (meglio) il mondo e lo sport.
Vive le Tour.